“La sete e la fame”. Quaresima 2018

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Eugenio Ionesco  (citato da Jose Tolentino a gli esercizi spirituali di Papa Francesco). Dal 1958, con Assassinio senza movente e il Il rinoceronte (1959) Ionesco accentua la sua analisi del mondo borghese, intraprendendo la strada del teatro didattico antiborghese. Nel 1962 scrive Il re muore, nel 1963 Il pedone nell’aria: in entrambe le opere predomina l’idea di morte. Le opere più tarde di Ionesco (La sete e la fame, La peste) evidenziamo la paura dell’omologazione della società di massa. Nel 1974 pubblica il romanzo Il solitario, nel 1988 il diario La ricerca intermittente. Nel 1976 ha scritto e interpretato il film Il fango. Muore a Pargi nel 1994.

Siamo esseri inquieti, limitati, vulnerabili. Uomini e donne «incompleti e in costruzione». Assetati «di relazioni, di accettazione e di amore». Solo Gesù può soddisfare questa «sete».  Gesù promette di dissetarci, consapevole di «quanti ostacoli ci frenano» e di quante «derive ci ritardano». Ma noi desideriamo colmare questa sete? Desideriamo, cioè, Dio? Sappiamo riconoscere la nostra sete? Siamo «così vicini alla fonte e andiamo così lontano. D’altronde «non è facile esporsi alla sete»: essa «ci priva del respiro, ci esaurisce, ci sfinisce. Ci lascia assediati e senza forze per reagire… ci porta al limite estremo».   È ciò che accade a Jean, il protagonista maschile de “La sete e la fame” di Ionesco, un uomo «senza radici, né casa, incapace di creare legami, perduto nel vuoto del labirinto in cui ascolta solo il rumore solitario dei propri passi». La sua è una figura divorata da un «infinito vuoto», da «un’inquietudine che nulla sembra poter placare». È la sete dell’uomo di oggi; una sete, che «si tramuta nella disaffezione nei riguardi di ciò che è essenziale, in una incapacità di discernimento». Si può parlare dunque di «consumismo spirituale» che va di pari passo al consumismo materiale imposto dalla odierna società «come criterio di felicità». Con esso «il desiderio si trasforma in una trappola»: ogni volta infatti che pensiamo di appagare la nostra sete in una «vetrina», in un «acquisto», in un «oggetto». Questo fa crescere il vuoto: l’oggetto del nostro desiderio è un «ente assente», è un «oggetto sempre mancante».

La richiesta «dammi da bere» fatta dal Messia, un giudeo, ad una donna della Samaria, regione popolata da dissidenti con i quali gli ebrei non andavano d’accordo, lascia disarmati dallo «stupore».  Dobbiamo diventare «apprendisti dello stupore». Stupore per un Dio che «è mendicante dell’uomo», che assume tutte le debolezze umane in «un corpo che sperimenta la fatica dei giorni», che è «consunto dalla cura amorevole degli altri». Gesù «è venuto a cercarci». «nel più abissale e notturno della nostra fragilità, sentiamoci compresi e cercati dalla sete di Gesù». La sua sete non è la nostra, non è una sete «d’acqua», è una sete più grande. «È sete di raggiungere le nostre seti, di entrare in contatto con le nostre ferite». Lui ci chiede: «Dammi da bere», noi «gliela daremo? Ci daremo da bene gli uni gli altri?».